Paesaggio,paesaggio mentale, strumento
Quest lezione si basa su tre parole chiave:
Quest lezione si basa su tre parole chiave:
PAESAGGIO PAESAGGIO MENTALE STRUMENTO
La parola Paesaggio nasce da una richiesta specifica, Franco Zagari (prof. di Paesaggio) ha chiesto ad una serie di persone stimate quale sia la loro definizione di paesaggio, le raccoglie e ne fa un libro "24 definizioni di paesaggio". In questa occasione anche il prof. Saggio si esprime:
« La parola “paesaggio” ha un significato molto diverso dal termine “natura” che era abitualmente usato nel contesto dell’architettura funzionalista.
La parola natura si poneva in maniera “esterna” rispetto all’architettura. La natura esisteva di per sé ed era ovviamente anch’essa un oggetto, come oggetto era l’architettura stessa. Da ciò conseguiva il fatto che i volumi puri nati dall’applicazione della logica industriale e meccanica all’architettura si posassero come solidi platonici su un terreno che gli era estraneo. La natura era da una parte una terra di conquista per una città pensata in continua espansione, dall’altra una risorsa puramente igienica (di sole, di aria, di luce) che “serviva” all’architettura.
Il concetto di paesaggio ribalta l’oggettivo in soggettivo e l’idea di estraneità in interiorità. Se si inizia a riflettere ad una possibile definizione di paesaggio, si converrà con l’idea che l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno per pensare il paesaggio è la sua “immagine” e in particolar modo la sua rappresentazione in pittura. Possiamo togliere tutto al paesaggio: pensare al paesaggio senza cielo, senza natura, senza verde, senza acqua; possiamo finanche pensare a un paesaggio inabitato. Possiamo pensare a tante privazioni del paesaggio, ma non possiamo pensare in alcun modo al paesaggio senza pittura. E per pittura si intende, naturalmente, una forma di rappresentazione bidimensionale che va dai fratelli Lorenzetti – che ritrassero Siena e la sua campagna nel XIV secolo - sino a Burri o Pollock.
Perché non possiamo fare a meno della pittura (rappresentazione) per parlare di paesaggio? La prima ragione è che la pittura ci obbliga ad un rapporto “critico” con il vedere. Non è il paesaggio che esiste realmente, ma esiste solo un’interpretazione estetica del mondo che chiamiamo paesaggio. Il paesaggio “è” interpretazione (non è natura, non è territorio, non è materia). L’interpretazione è una forma di conoscenza complessa che appunto è prima estetica e poi (ma in maniera subordinata) anche scientifica, botanica, socio economica, geologica, storica eccetera.
La seconda ragione per avvicinare la nozione di paesaggio alla rappresentazione e alla pittura, è che la pittura oltre a essere interpretazione critica è anche, e allo stesso tempo, progetto.
Infatti si può forse avere pittura senza sguardo? L’atto del guardare è atto critico (è diverso dal puramente meccanico “vedere”). Nella pittura l’esercizio dello sguardo non propone una attività passiva, ma bensì una attiva che costruisce l’immagine e quindi in realtà propone un vero e proprio progetto di trasformazione.
Pensiamo a Canaletto (e naturalmente ricordiamo André Corboz che bisogna citare in questo contesto), a Turner, a Cezanne, a Pollock e a Rauschenberg e a Rotella.
Le loro interpretazioni di paesaggio hanno creato, creato!, i paesaggi poi costruiti e abitati. Cezanne non ha ritratto una montagna come era. Cezanne ha capito, dipingendo in quel modo, come il mondo avrebbe dovuto essere. E quel mondo, Le Corbusier e Mies e Gropius lo hanno veramente costruito e noi veramente abitato. Vogliamo parlare di Rauschenberg della Pop Art e di Gehry? O pensare a Klee e a così tante ricerche di landscape che in una maniera o nell’altra lo costruiscono veramente, come nel caso della Hadid, il paesaggio che Klee ha dipinto? Pittura, rappresentazione, nozione di paesaggio si collegano così al progetto. Non è un nesso facile, né immediato, ma è profondamente utile.
Vi è un terzo livello. Il paesaggio, attraverso la rappresentazione pittorica, non solo è come abbiamo visto (1) interpretazione critica, e (2) progetto esso è anche allo stesso tempo, auto rappresentazione, (3) autoritratto. Van Gogh è decisivo per capire questo aspetto.
Questa componente da una parte porta al fatto che tutti dovremmo guardare, interpretare e soprattutto rappresentare il paesaggio: l’esercizio della rappresentazione può e deve essere fatto in prima persona come pratica critica e autocritica, come lettura del mondo a nostra immagine e somiglianza. Ma il secondo aspetto nella nozione di autoritratto per intendere il paesaggio (ben nota alla letteratura psicanalitica), si collega al rapporto tra soggettività e collettività.
Come le persone sanno misurarsi in rapporto gli altri attraverso una fitta rete di relazioni storiche, sociali, economiche, così il paesaggio è un campo di mediazione tra soggetto (e rappresentazione personale) e collettività. La nozione di paesaggio si gioca tra personalità individuale e responsabilità collettiva. I grandissimi danno spallate alla visione storicamente consolidata (i Lorenzetti, i Cezanne, i Boccioni, i Burri ma anche Gehry, Eisenman o Hadid) e obbligano l’insieme sociale a riassestarsi progressivamente su una nuova estetica e su una nuova modalità di trasformazione del paesaggio. Ecco allora la definizione:
[1] Paesaggio è la rappresentazione estetica, condivisa collettivamente e culturalmente, ma in costante evoluzione, di una parte del mondo.
La parola natura si poneva in maniera “esterna” rispetto all’architettura. La natura esisteva di per sé ed era ovviamente anch’essa un oggetto, come oggetto era l’architettura stessa. Da ciò conseguiva il fatto che i volumi puri nati dall’applicazione della logica industriale e meccanica all’architettura si posassero come solidi platonici su un terreno che gli era estraneo. La natura era da una parte una terra di conquista per una città pensata in continua espansione, dall’altra una risorsa puramente igienica (di sole, di aria, di luce) che “serviva” all’architettura.
Il concetto di paesaggio ribalta l’oggettivo in soggettivo e l’idea di estraneità in interiorità. Se si inizia a riflettere ad una possibile definizione di paesaggio, si converrà con l’idea che l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno per pensare il paesaggio è la sua “immagine” e in particolar modo la sua rappresentazione in pittura. Possiamo togliere tutto al paesaggio: pensare al paesaggio senza cielo, senza natura, senza verde, senza acqua; possiamo finanche pensare a un paesaggio inabitato. Possiamo pensare a tante privazioni del paesaggio, ma non possiamo pensare in alcun modo al paesaggio senza pittura. E per pittura si intende, naturalmente, una forma di rappresentazione bidimensionale che va dai fratelli Lorenzetti – che ritrassero Siena e la sua campagna nel XIV secolo - sino a Burri o Pollock.
Perché non possiamo fare a meno della pittura (rappresentazione) per parlare di paesaggio? La prima ragione è che la pittura ci obbliga ad un rapporto “critico” con il vedere. Non è il paesaggio che esiste realmente, ma esiste solo un’interpretazione estetica del mondo che chiamiamo paesaggio. Il paesaggio “è” interpretazione (non è natura, non è territorio, non è materia). L’interpretazione è una forma di conoscenza complessa che appunto è prima estetica e poi (ma in maniera subordinata) anche scientifica, botanica, socio economica, geologica, storica eccetera.
La seconda ragione per avvicinare la nozione di paesaggio alla rappresentazione e alla pittura, è che la pittura oltre a essere interpretazione critica è anche, e allo stesso tempo, progetto.
Infatti si può forse avere pittura senza sguardo? L’atto del guardare è atto critico (è diverso dal puramente meccanico “vedere”). Nella pittura l’esercizio dello sguardo non propone una attività passiva, ma bensì una attiva che costruisce l’immagine e quindi in realtà propone un vero e proprio progetto di trasformazione.
Pensiamo a Canaletto (e naturalmente ricordiamo André Corboz che bisogna citare in questo contesto), a Turner, a Cezanne, a Pollock e a Rauschenberg e a Rotella.
Le loro interpretazioni di paesaggio hanno creato, creato!, i paesaggi poi costruiti e abitati. Cezanne non ha ritratto una montagna come era. Cezanne ha capito, dipingendo in quel modo, come il mondo avrebbe dovuto essere. E quel mondo, Le Corbusier e Mies e Gropius lo hanno veramente costruito e noi veramente abitato. Vogliamo parlare di Rauschenberg della Pop Art e di Gehry? O pensare a Klee e a così tante ricerche di landscape che in una maniera o nell’altra lo costruiscono veramente, come nel caso della Hadid, il paesaggio che Klee ha dipinto? Pittura, rappresentazione, nozione di paesaggio si collegano così al progetto. Non è un nesso facile, né immediato, ma è profondamente utile.
Vi è un terzo livello. Il paesaggio, attraverso la rappresentazione pittorica, non solo è come abbiamo visto (1) interpretazione critica, e (2) progetto esso è anche allo stesso tempo, auto rappresentazione, (3) autoritratto. Van Gogh è decisivo per capire questo aspetto.
Questa componente da una parte porta al fatto che tutti dovremmo guardare, interpretare e soprattutto rappresentare il paesaggio: l’esercizio della rappresentazione può e deve essere fatto in prima persona come pratica critica e autocritica, come lettura del mondo a nostra immagine e somiglianza. Ma il secondo aspetto nella nozione di autoritratto per intendere il paesaggio (ben nota alla letteratura psicanalitica), si collega al rapporto tra soggettività e collettività.
Come le persone sanno misurarsi in rapporto gli altri attraverso una fitta rete di relazioni storiche, sociali, economiche, così il paesaggio è un campo di mediazione tra soggetto (e rappresentazione personale) e collettività. La nozione di paesaggio si gioca tra personalità individuale e responsabilità collettiva. I grandissimi danno spallate alla visione storicamente consolidata (i Lorenzetti, i Cezanne, i Boccioni, i Burri ma anche Gehry, Eisenman o Hadid) e obbligano l’insieme sociale a riassestarsi progressivamente su una nuova estetica e su una nuova modalità di trasformazione del paesaggio. Ecco allora la definizione:
[1] Paesaggio è la rappresentazione estetica, condivisa collettivamente e culturalmente, ma in costante evoluzione, di una parte del mondo.
Informatica e nuove complessità
Il rapporto tra questa definizione di paesaggio e l’informatica è stato in una prima fase indiretto e strumentale, ma ultimamente è anche diretto e creativo. E’ stato indiretto e strumentale perché il cheapscape di Gehry, i palinsesti di Eisenman, le tessiture guizzanti di Hadid sono tre modi in cui un’idea personale e soggettiva di paesaggio si è trasformata in “rappresentazione estetica condivisa collettivamente e culturalmente” e in architettura grazie all’elettronica. Informatica, computer, modelli, calcoli sofisticatissimi e anche in parte realizzazione diretta delle componenti sono stati gli strumenti elettronici che hanno consentito in questa fase storica la realizzazione di quelle idee. Come disegnare e poi costruire altrimenti le grandi masse continuamente cangianti di Gehry nell’auditorium di Los Angeles, oppure le profonde fratture del terreno nel centro culturale di Santiago de Compostela di Eisenman oppure i crepacci e gli intrecci della stazione di Afragola della Hadid? Ma la concezione di quel paesaggio non è affatto ispirata all’elettronica come invece avverrà per la generazione di architetti successiva a quella di Gehry, Eisenman e Hadid. E’ questa una generazione “Nata con il computer” e che è intimamente legata all’elettronica. In questo caso si lavora ad un’idea di paesaggio di cui l’informatica e l’informazione sono effettivamente la materia prima. (V. Informazione). Nasce un rapporto con una nuova idea di paesaggio in un intreccio, intimo, quasi inestricabile con l’informatica. Vediamo come e perché.
Il paesaggio cui cercano di dare forme i nuovi architetti nasce attraverso i sistemi di interconnessioni dinamiche, le interrelazioni, le mutevolezze, le geometrie topologiche o parametriche che sono tipiche del mondo informatico. Una serie di architetti, li nomineremo oltre (V. Reificazione), stanno dando forma ad un paesaggio informatico che se non ha ancora l’evidenza e la forza di rappresentazione “collettivamente condivisa” che sta assumendo il lavoro di Hadid, di Gehry o di Eisenman ha allo stesso tempo caratteri già delineati. »
Il rapporto tra questa definizione di paesaggio e l’informatica è stato in una prima fase indiretto e strumentale, ma ultimamente è anche diretto e creativo. E’ stato indiretto e strumentale perché il cheapscape di Gehry, i palinsesti di Eisenman, le tessiture guizzanti di Hadid sono tre modi in cui un’idea personale e soggettiva di paesaggio si è trasformata in “rappresentazione estetica condivisa collettivamente e culturalmente” e in architettura grazie all’elettronica. Informatica, computer, modelli, calcoli sofisticatissimi e anche in parte realizzazione diretta delle componenti sono stati gli strumenti elettronici che hanno consentito in questa fase storica la realizzazione di quelle idee. Come disegnare e poi costruire altrimenti le grandi masse continuamente cangianti di Gehry nell’auditorium di Los Angeles, oppure le profonde fratture del terreno nel centro culturale di Santiago de Compostela di Eisenman oppure i crepacci e gli intrecci della stazione di Afragola della Hadid? Ma la concezione di quel paesaggio non è affatto ispirata all’elettronica come invece avverrà per la generazione di architetti successiva a quella di Gehry, Eisenman e Hadid. E’ questa una generazione “Nata con il computer” e che è intimamente legata all’elettronica. In questo caso si lavora ad un’idea di paesaggio di cui l’informatica e l’informazione sono effettivamente la materia prima. (V. Informazione). Nasce un rapporto con una nuova idea di paesaggio in un intreccio, intimo, quasi inestricabile con l’informatica. Vediamo come e perché.
Il paesaggio cui cercano di dare forme i nuovi architetti nasce attraverso i sistemi di interconnessioni dinamiche, le interrelazioni, le mutevolezze, le geometrie topologiche o parametriche che sono tipiche del mondo informatico. Una serie di architetti, li nomineremo oltre (V. Reificazione), stanno dando forma ad un paesaggio informatico che se non ha ancora l’evidenza e la forza di rappresentazione “collettivamente condivisa” che sta assumendo il lavoro di Hadid, di Gehry o di Eisenman ha allo stesso tempo caratteri già delineati. »
(Antonino Saggio Introduzione alla rivoiluzione informatica in Architettura, Carocci, Roma 2007:)
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